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Correggere il copyright

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Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 17 gennaio)

Il 1° gennaio è scaduto il copyright del cartone animato Disney “Steamboat Willie” (1929, t.ly/b0a8r) e della versione di Topolino e Minnie che vi compare. Purtroppo chi ne ha scritto non ha affrontato l’elefante nella stanza: il tema della riforma del copyright e del diritto d’autore. Il progresso tecnologico ha reso anacronistiche quelle leggi, e non più rinviabile la loro revisione. Negli Usa, per dire, l’azione lobbystica delle multinazionali dell’intrattenimento ha esasperato alcune criticità presenti nell’impianto della legge sul copyright, distorcendone la filosofia al punto da ostacolare la fruizione collettiva che la legge intendeva promuovere. L’argomento è vastissimo: mi limiterò alle questioni più eclatanti. Innanzitutto alcune premesse per capire di cosa si sta parlando. 

Cos’è il copyright. Il copyright è il monopolio temporaneo su un’opera, concesso dallo Stato all’autore. La sua tradizione è propria dei Paesi anglofoni, dove l’ordinamento giuridico (common law) si fonda più sui precedenti giurisprudenziali (sentenze) che su codici e leggi, come invece nel nostro sistema (civil law). Il copyright equivale al nostro diritto d’autore, ma ne differisce per alcuni aspetti importanti, sia filosofici che disciplinari. Per esempio, il copyright legittima la tutela temporanea delle opere come incentivo alla creazione, affinché la società ne benefici quando le opere diventeranno di dominio pubblico (diritto utilitaristico); invece il diritto d’autore legittima la proprietà intellettuale in quanto frutto di un lavoro personale (diritto morale). I due tipi di legge (copyright e diritto d’autore) portano agli stessi risultati pratici, ma non sempre: per esempio, se un autore cede il diritto di adattamento, e poi ci ripensa perché non è soddisfatto del risultato, il copyright non glielo permette, il diritto d’autore sì (Geller, 1994). Differenza sostanziale: negli Usa, per godere di protezione legale, un’opera va depositata, dietro pagamento, al Copyright Office; da noi, il diritto d’autore nasce automaticamente con la creazione di un’opera.

L’oggetto del copyright è l’opera (works). La legge tutela l’opera se è “originale” (originale in senso legale, cioè creata da un autore in modo autonomo) o se manifesta una modica quantità (modicum) di creatività. Un’opera derivata gode del fair use (cioè può usare liberamente un’opera protetta dal copyright) se trasformativa, cioè creativa. Il copyright tutela l’espressione: non le idee, i procedimenti, i metodi operativi, i concetti, le scoperte. È un amalgama di strutture concettuali fondate sull’ideologia dell’autorialità: la sua stesura incorpora una nozione di originalità mutuata dalla poetica romantica, che all’inizio serviva a distinguere le opere preesistenti da quelle derivate, ed era dunque sinonimo di originarietà (Casas Vallés, 2009). 

Durata del copyright. La prima legge sul copyright (1790) dava alle opere creative 28 anni di protezione (14 anni, più altri 14 di rinnovo). Nel 1831 la durata fu estesa a 42 anni. Nel 1909, a 56 anni: quindi il copyright di Topolino, creato nel 1928, sarebbe scaduto nel 1984; ma la Disney, con un’azione di lobby sul Congresso, ottenne che la durata del copyright per le opere create dopo il 1922 fosse allungato a 75 anni; e, per i lavori su commissione, a 95 anni dalla data di pubblicazione,  o a 125 anni dalla data di creazione, a seconda di quale delle due scadenze arrivi prima.

Il diritto d’autore ha come oggetto “le opere dell’ingegno di carattere creativo”: ne tutela l’espressione formale (forma esterna), la struttura (forma interna) e l’in sé (il contenuto) che caratterizzano l’opera come “originale”, cioè come frutto dell’attività creativa dell’autore. I diritti di utilizzazione economica durano fino a 70 anni dopo la morte dell’autore: il diritto morale dell’autore defunto può essere esercitato dagli eredi. (1. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 18 gennaio)

Riassunto della puntata di ieri: scaduto il copyright sul Topolino del 1928, andrebbe affrontato l’elefante nella stanza: la riforma del copyright e del diritto d’autore, leggi che il progresso tecnologico ha reso anacronistiche.  

Per la legge sul diritto d’autore i diritti di utilizzazione economica durano fino a 70 anni dopo la morte dell’autore (idem per le opere pubblicate per la prima volta dopo la sua morte): il diritto morale dell’autore defunto viene esercitato dagli eredi. I diritti per le opere con più co-autori (cinematografiche, drammatico musicali, coreografiche) durano 70 anni dalla morte dell’ultimo co-autore. Opere collettive e anonime: 70 anni dalla prima pubblicazione. Diritti connessi al diritto d’autore (riguardano produttori, esecutori e interpreti di un’opera): quelli di esecuzione e interpretazione durano 70 anni; produzione discografica: 70 anni; cinematografica e radio-televisiva: 50 anni. Opere postume, trascorsi i 70 anni dalla morte dell’autore: 25 anni. Edizioni critiche e scientifiche di opere di dominio pubblico: 20 anni. Bozzetti di scene teatrali: 5 anni. 

La proprietà intellettuale riguarda il diritto di esclusiva sui frutti dell’ingegno (arte, immagine, marchi, modelli, invenzioni). Il presupposto è che l’attività creativa e la ricerca richiedano un investimento economico, e che il rientro dei costi sia minacciato dalla concorrenza: grazie al monopolio temporaneo, la concorrenza è resa ingiusta per un certo lasso di tempo dall’invenzione, durante il quale l’eventuale utilizzo è condizionato da un compenso al proprietario del diritto. All’interno dell’associazione mondiale del commercio (WTO) il diritto della proprietà intellettuale è disciplinato dai TRIPs (Treaties on Right of Intellectual property, 1994). I TRIPs obbediscono a una logica proprietaria che è antitetica alla nostra tradizione costituzionale e giuridica, secondo la quale è un errore considerare la proprietà intellettuale una proprietà analoga a quella dei beni materiali. Inoltre, con l’avvento del web, la collettività considera la cultura come bene di fruizione, più che di proprietà (Gambino, 2013). C’è anche chi contesta le leggi sulla proprietà intellettuale perché ritiene che limitare la concorrenza economica, anche di poco, distorca il mercato (Kamperman Sanders, 2009). L’inventore, inoltre, non sempre sa sfruttare al meglio l’invenzione: Marconi non vide che la radio poteva essere un mezzo di comunicazione di massa; chi inventò i transistor pensava solo a un loro utilizzo per apparecchi acustici contro la sordità; chi creò il personal computer non seppe ricavarne usi significativi (Haber, 1994); il copyright assegnato a chi ricostruiva e decifrava i rotoli del Mar Morto ha impedito che i lavori procedessero più rapidamente, e che il pubblico ne fosse informato (Nimmer, 2001); Cervantes scrisse la seconda parte del Don Chisciotte perché qualcun altro aveva pubblicato una seconda parte apocrifa (Lemley, 2003).

La novità è che un contenuto, smaterializzato da internet, acquisisce le caratteristiche di un’idea: chiunque può goderne contemporaneamente nella sua interezza; non è un possesso, ma un’esperienza; non occupa uno spazio, ma un tempo; non è distribuito, ma si propaga come un meme, contagiando le culture ospiti che lo trovano interessante; non è un prodotto finito, ma qualcosa in evoluzione continua, come le storie nell’epoca dell’oralità, che erano patrimonio comune, e cambiavano secondo l’interprete e la sociocultura; la sua ricezione è attiva, non passiva: attenzione, interesse, linguaggio, paradigmi ed enciclopedia personale contribuiscono a renderlo significativo (senza un processo mentale, un contenuto è solo un insieme di dati); dà piacere apprenderlo e insegnarlo (questo spiega il lavoro volontario su blog e wiki: il compenso c’è, ma non è economico). (2. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 19 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: scaduto il copyright sul Topolino del 1928, andrebbe affrontato l’elefante nella stanza: la riforma del copyright e del diritto d’autore, leggi che il progresso tecnologico ha reso anacronistiche.  

Nel mondo dei contenuti smaterializzati il modello economico della proprietà intellettuale è quello dei servizi: medici, avvocati, architetti, consulenti vengono pagati direttamente per la loro proprietà intellettuale. Fino al 19° secolo questo era anche il modello dei creativi: componevano per mecenati che li pagavano; oggi gli artisti vengono pagati dal pubblico al momento della performance. Sia nei servizi che nella performance, uno difende la sua proprietà intellettuale con l’abilità nel gestire la relazione con il pubblico, ovvero con la qualità della performance (competenza, rilevanza); con la facilità, la convenienza e il controllo dell’accesso; e con l’innovazione costante (Barlow, 1994).

In epoca elisabettiana il pubblico teatrale era numericamente superiore a quello dei lettori, e non c’era copyright. Shakespeare guadagnava con servizi (vendeva i suoi testi ai teatri, anche a 20 pound per testo, quando il salario annuo di un insegnante era di 30 pound) e con performance: come attore, come autore (i drammaturghi elisabettiani, per contratto, avevano diritto agli incassi di una rappresentazione) e come co-proprietario dei teatri che gli compravano i testi, il Globe e il Blackfriars. John Webster, nel poema che introduce An Apology for Actors (1612) di Thomas Heywood, sostiene che l’autorità degli autori deriva dalla performance, non dalla stampa. Nel 1637, la compagnia di cui aveva fatto parte Shakespeare (King’s Men) si lamenta con il Lord Ciambellano, responsabile della censura sui testi, che la stampa delle opere teatrali senza l’autorizzazione della compagnia (che li aveva acquistati) “reca danno e disgrazia agli Autori”. Si trattava dell’edizione di copie trascritte durante la recita, dunque piene di errori e lacune. Gli stampatori non piratavano i testi teatrali, poiché nel mercato teatrale londinese tutti conoscevano tutti. Un impresario portava in tribunale gli avversari che mettevano in scena, vendevano o stampavano drammi a lui frodati (Ioppolo, 2006).

La Direttiva europea sul diritto d’autore, cui i Paesi membri dovranno adeguare il proprio ordinamento giuridico, riconosce agli autori il diritto esclusivo di diffusione dell’opera, e ad autori, interpreti, esecutori e produttori (discografici, cinematografici, televisivi) quello di riproduzione. Anche sul web. La pratica del peer-to-peer viola questi due diritti. Quanto alla modalità del dolo, la Direttiva europea considera il fine di lucro. Le leggi italiana e americana, invece, considerano il profitto (financial gain), che comprende sia il vantaggio patrimoniale diretto (lucro), sia quello indiretto (risparmio dei costi). 

La Convenzione di Berna (1967) limita il diritto di riproduzione 1) in determinati casi speciali 2) che non contrastino con il normale sfruttamento commerciale dell’opera, e che 3) non arrechino ingiustificato pregiudizio ai titolari dei diritti. Questo three-step test è il modello delle eccezioni negli accordi TRIPs, nei trattati WIPO (World Intellectual Property Organization), nella Direttiva europea e nella legge italiana sul diritto d’autore (art. 64 e 71). Non è più “diritto di copia”, ma diritto di controllare gli usi di un’opera (Latreille, 2009). La vaghezza diplomatica del test, che serve a favorire l’armonizzazione fra le leggi europee, potrebbe essere utile all’interprete nazionale e internazionale per correggere l’erosione del pubblico dominio da parte dell’attuale deriva iper-proprietaria, come ha fatto la Corte d’appello di Barcellona in Google v. Caching (2008), a tutela dei diritti di terzi, per esempio quello di concorrenza e di libera manifestazione del pensiero. (3. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (sabato 20 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: scaduto il copyright sul Topolino del 1928, andrebbe affrontato l’elefante nella stanza: la riforma del copyright e del diritto d’autore, leggi che il progresso tecnologico ha reso anacronistiche.  

Il caso Shepard – Prose. Nel 2018 Francine Prose, scrittrice e critica letteraria, accusò dal proprio account Facebook la scrittrice pakistano-americana Sadia Shepard di aver plagiato, col racconto Foreign-Returned pubblicato la settimana prima dal New Yorker, un racconto di Mavis Gallant, stampato sul New Yorker nel 1963. Molti scrittori, fra cui Salman Rushdie, intervennero a difendere la Shepard, poiché:

1) in letteratura la tradizione di rivisitare e incorporare il lavoro di altri scrittori è essenziale in quanto è un’arte che esplora la condizione umana nel tempo (Mishan, 2018); 

2) l’esaltazione dell’originalità non è che un’ossessione sulla proprietà ed è anacronistica in un’epoca dove la tecnologia permette a tutti il remix, l’appropriazione, la condivisione;   

3) l’appropriazione è positiva in quanto è sempre un’elaborazione critica, implicita o esplicita: è il modo con cui Jean Rhys agisce su Charlotte Brontë, Tayeb Salih su Conrad, Kamel Daoud su Camus, Lorrie Moore su Nabokov, Preti Taneja su Shakespeare, Chinelo Okparanta su Alice Munro, Yiyun Li su William Trevor, Nella Larsen su Sheila Kaye-Smith, Francis Scott Fitzgerald su Emily Brontë e Petronio, Nathan Englander su Carver, Carver e Cheever su Chekhov;

4) in ogni arte il riutilizzo di materiali precedenti è una tecnica che costringe il lettore/spettatore a partecipare alla creazione di significato, come accade in “24 Hour Psycho” (1993) di Douglas Gordon, che è la proiezione muta di “Psycho” (1963), rallentata fino a durare 24 ore; e in “9 Beet Stretch” (2002) di Leif Inge, che fa durare 24 ore la Nona Sinfonia di Beethoven, rallentata e senza alterazione del pitch; o quando Sherrie Levine rifà Walker Evans, e Michael Mandiberg rifà Sherrie Levine. 

   Sadia Shepard replicò alla Prose che, se lei e altri lettori avevano riconosciuto il precedente della Gallant, significa che il modello è noto. (Brahms fu meno diplomatico. Quando gli chiesero se avesse preso un tema dell’“Inno alla gioia” di Beethoven per il finale della sua Prima Sinfonia, rispose: “Ogni asino può vederlo”.) L’appropriazione è la strategia con cui l’arte raddoppia il piacere della sua fruizione: è un gioco di specchi fecondo. Chi non sa come altri fanno arte e ne fruiscono, e ritiene che solo il proprio modo sia giusto, restringe il campo artistico e contribuisce alla censura di voci innovative (Apostol, 2018). Lo scrittore Jess Row, dopo aver ricordato il ruolo fondamentale che, nell’estetica del XX e XXI secolo, hanno il pastiche, la parodia, il reframing, la trasposizione e il riarrangiamento creativo, sottolineò il vero scandalo del caso Shepard-Prose: che la Prose negasse a qualcuno il diritto di usare certi materiali come se lei ne fosse la guardiana.   

Il tratto distintivo della poetica contemporanea, postmoderna, è l’uso dell’appropriazione nella creazione artistica; il suo effetto principale è l’esibizione dell’artificio creativo (Sanders, 2006). L’artista postmoderno incorpora nei suoi lavori opere preesistenti, trattandole come significanti; la tecnologia digitale dà a tutti la possibilità di ricombinare materiali, e di diffonderli/condividerli attraverso il web: le leggi sul copyright e sul diritto d’autore entrano in conflitto con tutto questo. Soprattutto, sono leggi che negano la prassi artistica: Shakespeare e Mozart, che plagiavano liberamente tutto ciò che volevano, anche dai coevi, oggi non potrebbero scrivere i loro capolavori. (4. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (martedì 23 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: andrebbero riformati il copyright e il diritto d’autore, leggi che la deriva iper-proprietaria ha reso assurde, e il progresso tecnologico anacronistiche. 

Mercato globale e accordi TRIPs tendono a far convergere copyright e diritto d’autore. Nei Paesi di civil law, come il nostro, l’impronta della personalità serve a giustificare i diritti morali, ma in pratica un’opera è considerata originale in quanto risultato di una scelta fra diverse possibilità espressive; questo criterio è simile a quello usato dai giudici nei Paesi di common law (Casas Vallés, 2009). L’orizzonte culturale contemporaneo, che smaterializza sia i supporti tradizionali, sia l’espressione (ogni détournement trasforma un’espressione in un’idea); e che stacca l’opera dalla personalità dell’autore, e dalla localizzazione geografica di questi; obbligherebbe oggi a rivedere l’intera normativa, e a correggere diverse distorsioni che l’hanno peggiorata. L’urgenza è dovuta al fatto che le leggi in materia di proprietà intellettuale governano l’accesso alla cultura in tutti i suoi aspetti: sociali, politici, economici, educativi ed artistici (Patterson & Lindbergh, 1991).

Il caso Fables. A settembre lo sceneggiatore Bill Willingham ha rinunciato al copyright sulla serie a fumetti Fables (da lui creata 22 anni fa per la Vertigo, DC Comics) in polemica con la nuova gerenza (decisioni creative, divisione delle royalty). Spiega Willingham: “Le leggi attuali sono un’accozzaglia di accordi poco etici per mantenere i marchi e i diritti d’autore nelle mani delle grandi aziende, che possono permettersi di comprare i risultati che vogliono. Nel mio modello di riforma radicale di queste leggi, vorrei che ogni proprietà intellettuale fosse di proprietà del suo creatore originale per un massimo di 20 anni dal momento della prima pubblicazione, per poi passare al pubblico dominio e poter essere utilizzata da tutti. Prima che il periodo di 20 anni si esaurisca, il titolare della proprietà intellettuale può venderla a un’altra persona o a un’entità aziendale, che ne può avere l’uso esclusivo per un massimo di dieci anni. Poi non può più essere rivenduta. Diventa di dominio pubblico. Quindi, al massimo, qualsiasi proprietà intellettuale può essere tenuta in uso esclusivo per circa trent’anni, e non di più, senza eccezioni.” Nel frattempo ha reso di pubblico dominio Fables: “Se non ho potuto evitare che Fables finisse in cattive mani, almeno così posso fare in modo che finisca anche in molte buone mani” (t.ly/bopw1). Ma la DC Comics ha contestato Willingham, ribadendo che il copyright di Fables (“albi a fumetti, storie, personaggi ed elementi inclusi”) è della casa editrice (t.ly/h6t9R).  

Il caso Sunyata. Danno una mano alle multinazionali iper-proprietarie tutti gli autori che invocano il copyright contro le nuove tecnologie di IA che permettono la creazione di immagini. La notizia che Eris Edizioni pubblicherà Sunyata, graphic novel creato da Francesco D’Isa con software TTI (text to image), ha suscitato un vespaio di polemiche (t.ly/p4Ntr). D’Isa, filosofo, scrittore, saggista e artista visivo, nonché direttore editoriale de L’Indiscreto (t.ly/WDq40), replica: “Le attuali legislazioni del copyright limitano la creatività e l’innovazione, non garantiscono una giusta remunerazione per gli autori ma vanno solo a vantaggio delle grandi aziende, limitano l’accesso alle opere culturali, non tengono conto della natura collaborativa e collettiva della produzione culturale, sono inadeguate alle tecnologie digitali, limitano la ricerca, e ostacolano i cambiamenti sociali. La guerra non deve essere contro gli strumenti, ma per ottenere i mezzi di produzione. Appellarsi al copyright renderebbe questa strada ancora più difficile e dunque il mio impegno va nel versante opposto.” (5. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (mercoledì 24 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: andrebbero riformati il copyright e il diritto d’autore, leggi che la deriva iper-proprietaria ha reso assurde, e il progresso tecnologico anacronistiche. 

Il caso Sunyata. A chi gli contesta l’utilizzo di software TTI (text to image: un programma che crea immagini remixando in modo stupefacente materiali protetti da copyright, senza citare e pagare gli autori), Francesco D’Isa replica (t.ly/p4Ntr): “Credo che la battaglia per inasprire il diritto d’autore sia sbagliata da molti punti di vista; artistici, strategici, etici ed economici. Il copyright non è una tavola della legge scolpita da Dio, ma un accordo sociale che è nato in un certo momento della nostra storia e ha subito molte modifiche nel tempo. L’attuale dispositivo del diritto d’autore è del tutto inadatto all’era digitale e al momento va ad esclusivo vantaggio delle grandi aziende e di pochi artisti celebri. Nel caso specifico delle IA, la battaglia per un copyright sempre più severo renderà questi strumenti ancora più elitari e governati da pochi. Potremo affidarci solo al dataset imposto dalle aziende, perdendo il potere di modificare il mondo cognitivo delle IA, che già è limitato e molto US-centrico. Dovremmo augurarci che prendano i nostri dati. Di recente ho letto che il manifesto ha bloccato alle IA l’accesso ai suoi dati e ho pensato: ‘Peccato che non l’abbia fatto Libero! Ora avremo delle IA più di destra.’ La guerra non deve essere contro gli strumenti, ma per ottenere i mezzi di produzione. L’insieme dei dati, lo spazio simbolico dello strumento, deve mantenersi il più ampio possibile. Credo che si debba avere tutti e tutte la libertà di influire sul dataset usando qualunque dato disponibile in rete per ampliarlo, senza filtri tecnici o economici. Credo che lo strumento debba essere aperto all’utilizzo di chiunque. Credo che dovremmo lottare per avere IA aperte e pubbliche.” D’Isa (t.ly/G6Ukq) ricorda che la proprietà delle opere dell’ingegno fu trasferita agli autori all’epoca della rivoluzione francese (prima era gestita dalla monarchia). Fu un’idea del filosofo illuminista Diderot: vinse sulla tesi antagonista di Condorcet, secondo il quale invece un’opera non deve essere considerata privata, poiché vettrice di idee, idee che a loro volta sono figlie di un processo collettivo. D’Isa: “Il 13 gennaio 1791 la legge Le Chapelier garantì i diritti d’autore per 5 anni dopo la morte, che nel 1793 vennero prolungati a 10 con la legge Lakanal. Nei secoli questo limite temporale si è sempre più allungato, anche per difendere gli interessi di potenti detentori di diritti come la Disney Company. Molti studi hanno messo in dubbio il valore dell’attuale regolamentazione del diritto d’autore, sia per la sua efficacia che per la sua equità. Di recente si parla molto della liceità o meno dell’uso di materiale protetto da copyright per addestrare i sistemi di machine learning. In Europa si sta già votando per costringere le aziende a rendere trasparente il proprio dataset: per molti questa decisione va nella direzione di vietare il training su materiale non proprietario. Se questa fosse la strada e se fosse adottata globalmente, il futuro delle IA sarà probabilmente nelle mani dei monopoli delle Big Tech che possono permettersi o già possiedono i diritti di grosse moli di dati, come suggeriscono i progetti AI di Adobe e di Shutterstock. Anche le varie alleanze in corso (Adobe con Google, Shutterstock con Microsoft) sembrerebbero confermare questa ipotesi.” Chi invoca il copyright contro le IA paventa anche l’estrazione senza consenso dei dati personali (figura, voce): va vietata; ma in questo discorso è un argomento ad baculum che fa solo confusione, e non risolve il problema vero: la durata eccessiva del copyright. (6. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (giovedì 25 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: andrebbero riformati il copyright e il diritto d’autore, leggi che la deriva iper-proprietaria ha reso assurde, e il progresso tecnologico anacronistiche. Quelle leggi hanno vizi d’origine che giustificano il dominio delle Big Tech a danno della collettività. E non funzionano bene per niente.   

Un vizio del copyright: idea/espressione. Il copyright tutela l’espressione, non l’idea. La dicotomia idea/espressione è di origine giurisprudenziale (Baker v. Selden, 1880): fu incorporata nel Copyright Act (1976), nell’accordo TRIPs (1994) e nella Direttiva 2009/24/CE del parlamento europeo; ma è ritenuta da giudici e commentatori di difficile applicazione. E’ una distinzione falsa, poiché non puoi definire un’idea senza esprimerla (Masiyakurima, 2007), come è evidente nel caso della musica, dei software e delle traduzioni. Ogni espressione può essere considerata un’idea elaborabile; così come ogni idea, una volta che la si esprime per distinguerla dall’espressione, diventa un’espressione (Wiley, 1991). Anche la dottrina italiana, nel distinguere forma esterna (espressione), forma interna (“il modo di collegare o contrastare idee e concetti, che nell’arte suscita emozioni di ordine estetico, percepibile con un’attività intellettuale”, Ridolfi, 1996) e contenuto (il significato generale), sottolinea la difficoltà di separare la forma interna dal contenuto (Piola Caselli, 1927). Basta del resto il passaggio del tempo per trasformare un’espressione in un’idea: ciò che un’epoca giudica idea in quanto convenzione, un’epoca precedente avrebbe giudicato espressione, in quanto novità. Superman e Topolino non dovrebbero essere più protetti dal copyright perché ormai diventati convenzionali (Rotstein, 1993). Per questi motivi c’è chi ha proposto che i diritti esclusivi del copyright durino di meno, in modo da non penalizzare gli autori delle generazioni successive (Nunziato, 2002).  

La confusione interpretativa. I giudici interpretano i casi di violazione del copyright in modo non consistente: alcuni privilegiano l’evidenza del testo (formalismo); altri le intenzioni degli autori, la reazione del pubblico, il giudizio degli esperti (contestualismo); altri la propria intuizione. Nessuno di questi metodi, da solo, è prevedibile, trasparente ed equo nella totalità dei casi. Per esempio, l’evidenza del testo può essere insufficiente per valutare la trasformazione attuata da un testo derivato (Said, 2014). Inoltre una giuria non competente può trovare simili due opere che condividono solo parti non protette da copyright (Manuelian, 1988); giudicare plagio musicale ciò che è solo parte delle convenzioni tonali o formali (Lund, 2013); trovare diversa un’opera di cui l’autore ha modificato l’espressione in modo astuto (Nimmer & Nimmer, 1992); ignorare la differenza tra frase ed enunciato; e sopravvalutare ideologicamente l’originalità/creatività. Il musicista Robin Thicke è stato condannato per plagio in quanto la sua Blurred Lines ha una  “somiglianza stilistica” con Got To Give It Up di Marvin Gaye. Commenta Tim Wu: “Considerate quanti artisti sarebbero danneggiati se una tale sentenza fosse emessa con maggiore frequenza. Tutti sanno che i Rolling Stones hanno copiato lo stile di Chuck Berry e di altri artisti R’n’B. Il primo album dei Rush ricorda molto i Led Zeppelin, che, tra gli altri, si erano rifatti a Robert Johnson. Georges Braque e Pablo Picasso portarono avanti le idee di Paul Cézanne per sviluppare il Cubismo, uno stile che, a sua volta, è stato imitato da diversi altri pittori” (t.ly/G6Ukq). Aumentano la confusione le differenze nazionali. Prendiamo il caso del discorso in pubblico: negli Stati Uniti e in Italia la pubblicazione dev’essere autorizzata dall’autore, in Inghilterra no: chi pubblica la trascrizione di una conferenza altrui ne ottiene il copyright. (7. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (venerdì 26 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: andrebbero riformati il copyright e il diritto d’autore, leggi che giustificano il dominio delle big tech a danno della collettività. E non funzionano bene per niente.   

La confusione interpretativa: il fair use. Il copyright trova un limite nelle norme sull’uso legittimo (fair use). Vengono considerati 4 fattori. Non c’è violazione di copyright se l’utilizzo è trasformativo; se si tratta di un’idea o di un fatto; se la quantità utilizzata è minima; se non diminuisce il valore commerciale dell’opera originaria. I giudici considerano trasformativo l’uso che, tramite un cambiamento dei contenuti, una ricontestualizzazione, o aggiunte creative, cambia lo scopo dell’opera derivata (Murray, 2012). Il problema è che, nell’arte, tutto è trasformativo, come illustra Magritte dipingendo una pipa con la didascalia Questa non è una pipa (La Trahison des images, 1929); anche dipingere una copia di quel dipinto lo trasforma; e l’effetto sullo spettatore cambia, da un dipinto all’altro, e/o in epoche diverse (Heymann, 2008). 

   Il terzo fattore (quantità utilizzata) viene valutato in base al primo: copiare un’intera opera può essere lecito, copiarne una piccola parte no. L’artista americano Richard Prince comprò un dipinto, lo incorniciò assieme alla pagina della rivista su cui era stato pubblicato, e vendetta l’opera come propria, a un prezzo notevolmente superiore a quello del dipinto. L’autore del dipinto gli fece causa. Il giudice diede ragione a Prince poiché la sua opera aveva dato al lavoro precedente una “nuova espressione”, servendosi di una “nuova estetica” e ottenendo “risultati creativi e comunicativi differenti.”

   Il quarto fattore (danno commerciale) domina l’analisi giurisprudenziale. Il danno va provato, non basta presumerlo (Bartow, 2014). Alcuni giudici considerano solo il danno sul mercato esistente, altri anche quello sul mercato potenziale (Olson, 2005); però Nimmer (1963) critica il concetto di mercato potenziale poiché è una petizione di principio: il mercato potenziale è garantito dalla sentenza, prima di questa non esiste. L’opera derivata può rivolgersi a un pubblico differente, o crearne uno. “Difficile che il pubblico di Ghostface Killah ascolti il suo brano rap perché riutilizza tre frasi di What a Wonderful World di Armstrong” (così la sentenza in Abilene Music, Inc. v. Sony Music Enter., Inc., 2003, con vittoria di Ghostface Killah). Un documentario sul cineasta Peter Graves utilizzava estratti dai suoi film, protetti da copyright; ma fu giudicato legittimo poiché, oltre a informare, avrebbe potuto aumentare l’interesse del pubblico per Graves, e quindi i suoi profitti (Hofheinz v. AMC Prods. Inc., 2001). Inoltre, a volte considerare il mercato è inappropriato: quando un’opera derivata esprime un punto di vista dissidente, applicare le norme alla lettera censurerebbe la libertà di parola (Lange & Anderson, 2001).

   La dottrina del fair use invita il giudice ad analizzare l’equivalenza funzionale fra le due opere in causa (Lange & Anderson, 2001): un testo è ciò che fa, il suo significato è nel suo effetto (Heymann, 2008). La flessibilità del fair use rende il giudizio più equo, ma anche più imprevedibile, sicché la creazione di opere nuove di tipo appropriativo resta insicura (Heymann, 2009). “Gli artisti esiteranno a sperimentare modi creativi se tali esperimenti possono essere accusati di violazione di copyright(Krieg,1984). Le multinazionali del copyright, del resto, non hanno alcun interesse a promuovere interpretazioni del fair use favorevoli alla collettività. Il risultato è che la maggioranza subisce le minacce legali dei titolari del copyright (Gambino, 2013). (8. Continua)

Non c’è di che di Daniele Luttazzi (sabato 27 gennaio)

Riassunto delle puntate precedenti: andrebbero riformati il copyright e il diritto d’autore, leggi che la deriva iper-proprietaria ha reso assurde, e il progresso tecnologico anacronistiche.  

Critica della durata del copyright. Il punto nevralgico della legge sul copyright è la durata eccessiva del monopolio: favorisce le multinazionali dell’intrattenimento, non la collettività, quindi stravolge il senso della legge (Lessig, 2004). Boyle (1996) propone di ridurre la durata del copyright a 20 anni. “La durata limitata di copyright e brevetti promuove il miglioramento di scritti e invenzioni permettendo ad autori e inventori di costruire su ciò che li ha preceduti” (Lemley, 1997). Il giudice potrebbe già tenerne conto nell’analisi del fair use, indicando così in che senso la legge dovrà essere corretta: più un’opera è datata, più dovrebbe esserne permesso il riutilizzo (trasformazioni e derivazioni) da parte della collettività (Liu, 2002). I prosumer dovrebbero poter giocare liberamente con la sociocultura tramite le tecnologie oggi disponibili, poiché il progresso sociale, che è il fine del copyright, è creato dalle persone nel loro contesto (Cohen, 2005).

Anacronismo del copyright. La legge americana sul copyright è antiquata rispetto alla tecnologia attuale (che permette a tutti ogni modalità di remix testuale e audiovisivo, di distribuzione delle opere, di condivisione immediata dei contenuti altrui); ed è sbagliata perché non garantisce più l’equilibrio iniziale fra la tutela dei diritti degli artisti e quella dei diritti della collettività (Patry, 2012). Le major dell’intrattenimento, infatti, hanno dirottato la legge per utilizzarla contro lo spirito stesso del copyright, che concedeva il monopolio dell’opera al suo autore (e non a una Corporation) per un periodo molto limitato: 14 anni rinnovabili. La legge attuale lo estende a dismisura: una conseguenza è che gli autori non possono creare lavori che rimodellino la realtà culturale nella quale vivono. Senza dimenticare altri costi sociali: per esempio i costi di transazione aumentano quando è necessario il consenso di diversi proprietari di un copyright, e la difficoltà di coordinarne le esigenze di tutti può portare al non-utilizzo dell’opera; inoltre quando gli editori non ristampano un’opera ne mantengono il copyright, rendendola indisponibile (Gordon, 2002). 

   La nuova tecnologia digitale ha cambiato quantità, contenuto, forma e funzione dell’appropriazione espressiva (Lange & Anderson, 2001): la legge sarà adeguata ai tempi quando sussumerà le poetiche di sampling, remix e mash up che il web ha reso ambiente. Oggi copiare da Shakespeare non viola i diritti di Shakespeare, ma potrebbe violare il copyright di chi ha copiato da Shakespeare negli ultimi 70 e passa anni: per esempio, gli autori di West Side Story. Con l’ulteriore paradosso che, per essere a norma, copiare da Shakespeare non richiede variazioni significative, mentre copiare da West Side Story le esige (Bartow, 2004).

   L’inventore non sempre sviluppa al meglio l’idea. Hamlet era un dramma che aveva avuto successo nel 1580: 20 anni dopo, Shakespeare usò quel testo per scrivere il suo Hamlet: ed è questa la versione nota in tutto il mondo. Non sarebbe interessante vedere Mary Poppins rifatto liberamente da Tarantino? Ma non è possibile, senza un accordo con la Disney. “L’acquisizione di copyright e brevetti da parte di poche multinazionali ha sottratto, tanto al pubblico quanto ai creatori, i frutti delle opere dell’ingegno” (Noto La Diega, 2014). Quando cambia il contesto assiologico, le leggi cambiano (Lessig, 2004), anche perché, se una legge non collima con l’usanza sociale, è difficile farla rispettare (Solum, 2004). (9. Fine) 

FONTI

Apostol, Francine Prose’s Problem, 2018

Barlow, The Economy of Ideas, 1994

Bartow, A Restatement of Copyright Law as More Independent and Stable Treatise, 2014
   Copyrights and Creative Copying, 2004

Boyle, Shamans, Software, and Spleens: Law and the Construction of the Information Society, 1996

Casas Vallés, The requirement of originality, 2009

Cohen, The Place of the User in Copyright Law, 2005

Haber, Electronic Breakthroughs: Big Picture Eludes Many, 1994

Gambino, Creatività e contenuti in rete, 2013

Geller, Toward an Overriding Norm in Copyright: Sign Wealth, 1994

Gordon, Render Copyright Unto Caesar: On Taking Incentives Seriously, 2004
   Authors, Publishers, and Public Goods: Trading Gold for Dross, 2002

Heymann, A Tale of (At Least) Two Authors: Focusing Copyright Law on Process Over Product, 2009
   Everything is Transformative: Fair Use and Reader Response, 2008

Ioppolo, Dramatists and their Manuscripts in the Age of Shakespeare, Jonson, Middleton and Heywood, 2006

Kamperman Sanders, Do whiffs of misappropriation and standards for slavish imitation weaken the foundations of IP law?, 2009

Krieg, Copyright, Free Speech and the Visual Art, 1984 

Lange & Anderson, Copyright, Fair Use and Transformative Critical Appropriation, 2001

Latreille, From idea to fixation: a view of protected works, 2009

Lemley, Ex Ante Versus Ex Post Justifications for Intellectual Property, 2003
   The Economics of Improvement in Intellectual Property Law, 1997

Lessig, Remix: Making Art and Commerce Thrive in a Hybrid Economy, 2008
   Free Culture: How Big Media Uses Technology and the Law to Lock Down Culture and Control Creativity, 2004

Liu, The New Public Domain, 2011
   Copyright and Time: a Proposal, 2002

Lund, Fixing Music Copyright, 2013

Manuelian, The Role of the Expert Witness in Music Copyright Infringement Cases, 1988

Masiyakurima, The Futility of the Idea/Expression Dichotomy in UK Copyright Law, 2007

Mishan, In Literature, Who Decides When Homage Becomes Theft?, 2018

Murray, What is Transformative? An Explanatory Synthesis of the Convergence of Transformation and Predominant Purpose in Copyright Fair Use Law, 2012

Nimmer, D. Copyright in the Dead Sea Scrolls: Authorship and Originality, 2001 

Nimmer, M. On Copyright, 1963

Nimmer & Nimmer, Law of Copyright, 1992 

Noto La Diega, Il paradigma proprietario e l’appropriazione dell’immateriale, 2014

Nunziato, Justice Between Authors, 2002

Olson, A Practical Guide to the Fair Use Doctrine in American Copyright Law, 2005

Patry, How to fix copyright, 2012 

Patterson & Lindbergh, The Nature of Copyright: a Law of Users’ Rights, 1991

Piola Caselli, Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, 1927 

Ridolfi, Creatività e plagio nelle opere d’arte figurativa, 1996 

Rotstein, Beyond Metaphor: Copyright Infringement and the Fiction of the Work, 1993

Said, Reforming Copyright Interpretation, 2014

Sanders, Adaptation and Appropriation, 2006

Solum, The Future of Copyright, 2004

Wiley, Copyright At the School of Patent, 1991

 

La Palestra di satira riapre sul Fq!

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Una delle prime buone notizie del 2024: riapre sul Fatto la mia Palestra di satira, che una dozzina d’anni fa tracciò il solco poi difeso da tanti con la spada della loro bravura e la baionetta del loro acume (un saluto agli amici di Lercio). E vomere, spada e baionetta sono di acciaio temprato come la fede dei nostri cuori. (Chissà, forse se continuo così Chiocci mi intervista in Rai in uno special di fine anno. Perché Fiorello sì e io no?)

Guerra mondiale, crisi economica, sanità pubblica allo sbando, Giorgia Meloni: mai come in questi tempi c’è stato tanto bisogno di dissenso informato. La Palestra è il luogo dove allenare ed esibire i vostri muscoli satirici. Inviatemi le vostre battute sui fatti del giorno. Usate come premessa della battuta un titolo di giornale. Sceglierò quelle che mi piacciono e le pubblicherò.

Prima di cominciare, studiatevi il mini-manuale Preparazione H e cinti erniari che trovate qui: t.ly/UPrir. Ci troverete alcune dritte sui fondamentali della battuta ben fatta (brevità, esattezza, semplicità, sorpresa, ritmo) e sugli errori da evitare. Per la trattazione completa della materia non avete che da compulsare le 189 puntate delle Questioni comiche pubblicate sul Fatto.

Con la Palestra si impara in tre modi:
1) Confrontando le proprie battute scartate con le regoline della Preparazione H.
2) Confrontando le proprie battute scartate con quelle scritte da altri sullo stesso argomento.
3) Confrontando la propria battuta pubblicata con la propria battuta inviata. Prima di pubblicarle, infatti, le aggiusto: imparerete tante cosine sull’arte della battuta e in poco tempo diventerete bravissimi. Lo so perché è già successo.

Inviate i vostri esercizi a questo indirizzo: palestraluttazzi@proton.me e non dimenticate di firmarvi con nome e cognome (siete persone, non un nick). Indicate la rubrica a cui partecipate: mi faciliterete la cernita.

AVVERTENZA: Non inviate battute prese dal web e altri siti satirici. Il senso della Palestra è esercitarsi, non farlo fare agli altri al posto vostro. Corollario: se le inviate qui, non inviatele altrove. E viceversa. Niente casini inutili. Nel caso, ve ne assumete ogni responsabilità e ogni conseguenza (shit storm, querele, &c.).

URKA! Inventa la battuta per la vignetta senza parole. L’autore della migliore riceverà in omaggio un abbonamento digitale annuo al Fatto quotidiano! (Sì, l’anno comincia decisamente bene.)

Breve storia della Palestra. Il 4 maggio 2009 pubblicai sul mio blog questa battuta: “Afghanistan. Soldati italiani sparano: muore una tredicenne. Berlusconi illeso.” L’utente Graffio mi scrisse entusiasta: “Luttazzi è un piacere vedere che è sempre sul pezzo. Sarei lusingato se volesse darmi dei consigli satirici. Provo a stare sul pezzo anch’io. “Roma. La vedova dell’anarchico Pinelli sarà al Quirinale. Napolitano: ‘Si affacci, guardi che panorama.’” Commentai: “Questa battuta è così bella che mi hai dato un’idea.” E così il 9 maggio apriva la Palestra, il cui mini-manuale di istruzioni veniva costantemente aggiornato in base alle domande e ai suggerimenti dei lettori. Nella Palestra c’erano attrezzi ed esercizi per tonificare i muscoli satirici di base: rubriche che potrete utilizzare a piacere anche qui. Eccole.

Gli esercizi: le rubriche.

Sollevamento pesi. Trova un titolo di giornale e aggiungi il tuo commento divertente. Esempio:

Palermo. Cane antidroga scopre corriere con 51 ovuli di cocaina in corpo. Le autorità stanno ancora cercando di sfilargli l’animale dal culo. (Michele Comelli)

Variazione: trova una frase detta pubblicamente e aggiungi il tuo commento divertente. Esempio:

Veltroni: “Vedo un paese incupito”. Sono le facce che gli fanno quando lo riconoscono per strada. (Marco Ferrara)

Cyclette. Trova un titolo vero che è già divertente di per sè, senza bisogno di aggiungere altro. Esempio:

Milingo si lamenta: “Quanto mi costa la moglie”. (libero-news.it/Giuliano Cassataro)

Parallele. Trova un titolo di giornale e (sullo stesso giornale o su altri) un titolo divertente che sembri correlato. Esempio:

1. Cabinovia ko, salvati in elicottero. (ansa.it)
2. Elicottero caduto: funerali martedì. (ansa.it/Francesco Dibenedetto)

Variazione: trova due frasi contraddittorie dello stesso personaggio. Esempio:

1. Tarcisio Bertone: “Serve un impegno efficace per la difesa dell’infanzia”. (repubblica.it)
2. Tarcisio Bertone: “A mio parere, non ha fondamento la pretesa che un vescovo sia obbligato a rivolgersi alla magistratura civile per denunciare il sacerdote che gli ha confidato di aver commesso il delitto di pedofilia.” (30giorni.it/Marco Ferrara)

Pilates. Trova una frase pronunciata pubblicamente e inventa la frase che ne sia il vero significato. Esempio:

1. D’Alema: “Sono un democratico e sono anche socialista, ma non più comunista.”
2. D’Alema: “Se dico che sono comunista, mi cacciano dal circolo nautico.” (Ferdinando Di Giovanni)

Carnac. Trova una frase pronunciata pubblicamente e inventa la domanda bizzarra che l’ha provocata. Esempio:

1. Il professor Mancuso, teologo: “E’ crollata la fiducia nel clero.”
2. Giornalista: “Come mai i bambini non chiudono più gli occhi quando aprono la bocca per prendere l’ostia?” (Giovanni Cavallo)

Quadro svedese. Dai la definizione comica di una parola data. Esempio:

Fiorello (s.m.) – un Pino Insegno che ce l’ha fatta.

La parola della settimana è: Ospedale.

Spalliera. Dai la definizione comica di una parola inventata. Esempio:

Rossiglione (s.m.) – L’odore delle palle.

La parola inventata della settimana è: Marghera.

Stepper. Scrivi una definizione con frase bisenso. Esempio:

Martire Isis: brillante solitario (Cunctator)

Tapis roulant. Data una domanda generica, dai una risposta. Esempio:

Cosa potrebbe fare il PD per migliorare la sua immagine, a questo punto?
Chiamare Prodi e fargli fare una seduta spiritica per chiedere l’aiuto di Berlinguer. (Michele Mazzarano)
Meno tasse per tutti e un milione di posti di lavoro. Qualcuno ci ricascherà. (Davide Paolino)
Sciogliersi. (Richi Selva)
Migliorare la nostra immagine? Più di così? (Fabio Morasca)

La domanda generica della settimana è: Quali sono i propositi di Giorgia Meloni per il nuovo anno?

Vogatore. Scrivi una battuta che sia un’esagerazione con la formula: “X è così (aggettivo) che (esagerazione)”. Esempio:

Fa così freddo che nelle mie fantasie erotiche Belen è vestita. (Davide Paolino)

Kettlebell. Inventa un titolo divertente su un fatto noto. Esempio:

Tossicodipendenti accusati di fare ciclismo.

Palla medica. Scrivi una non-battuta, cioè una frase che ha la forma di una battuta ma non lo è. Esempio:

Sono bisessuale. Ho sempre voluto andare in Svizzera.

Cavallina. Trova una foto d’attualità e inventa i dialoghi dei personaggi nella foto. Esempio:

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Variazione: trova l’immagine tratta da un film e inventa i dialoghi dei personaggi nella foto. Esempio:

CAAN
Elastici. Inventa la battuta per questa vignetta senza parole.
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L’autore della migliore riceverà in omaggio un abbonamento digitale annuo al Fatto quotidiano. (Sì, esatto!)

Avete una settimana di tempo per inventare almeno una battuta. Dateci dentro e proponete le vostre cose migliori. Buon divertimento!

Preparazione H e cinti erniari per principianti

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1) Una battuta (in inglese, joke; ma anche one liner se è molto breve) è composta da due parti: premessa (premise) e coda comica (punchline).

2) Per una battuta servono un’idea buffa (plot) e una struttura (una tattica retorica, cioè un certo modo di comporre la frase: una tecnica). Questa distinzione è molto importante, perché non è l’idea buffa a far scattare la risata, ma la struttura. Infatti quando un giornalista riporta una battuta facendone la parafrasi non fa ridere. La Palestra serve a migliorare la tua tecnica. Esempio: una battuta inviata era “Berlusconi è talmente faccia di culo che arriverà a sostenere che era lui ad essere pagato dalle donne per le sue prestazioni sessuali.” Pubblicata, diventò: “Berlusconi: ‘Le escort? Erano loro a pagare me.’” Dal confronto fra la battuta inviata e quella pubblicata uno impara tante cosine, se vuole. Le tattiche retoriche per fare battute sono più di un centinaio e nelle 189 puntate delle mie Questioni comiche, pubblicate dal Fatto quotidiano, le trovi tutte.

3) Sapere la tecnica della battuta non è sufficiente: divertenti si nasce. Cosa dà lo spunto per una battuta? Il tuo modo di vedere le cose, e questo non si può insegnare, mi spiace. Se ci sei portato, però, la Palestra ti aiuterà a migliorarti. I princìpi stilistici da seguire sono cinque: brevità, esattezza, semplicità, sorpresa, ritmo.

4) Brevità. Asciuga il più possibile. Togli le parole superflue: a parità di contenuto, è migliore la battuta con meno parole. Se però devi scegliere fra brevità e ritmo, privilegia il ritmo.

5) Esattezza. Cura i dettagli, come la scelta e l’ordine delle parole. L’esattezza contribuisce all’effetto divertente rendendo vivida la gag. “Una volta ho visto un quadro in cui giocavi a scacchi”: questa vecchia traduzione di una battuta di Woody Allen non faceva ridere perché non era esatta. La battuta originaria era “I once saw a picture of you playing chess”, ovvero “Una volta ho visto un film in cui giocavi a scacchi”. Una sola parola sbagliata (“picture” tradotto con “quadro” invece che con “film”) inceppò il meccanismo a orologeria del joke, e fece perdere l’allusione di Allen a Bergman.

6) Semplicità. Una battuta satirica allude a un fatto, ma non funziona se il riferimento è per specialisti e devi spiegarlo: “Il Papa a Betlemme: ‘Uno Stato per i palestinesi, il Madagascar’”. La battuta faceva satira su Ratzinger con un riferimento ad Adolf Eichmann e al piano nazista di trasferire gli ebrei tedeschi in Madagascar. Altro esempio no: “Giovane si addormenta con il cellulare umts collegato a internet. Dilapidato il credito. Si giustifica così: ‘Almeno posso sognare in modo fluido.’” Eh?

7) La battuta dev’essere una sorpresa rispetto alla premessa. Se la sorpresa è poca, la battuta è debole. Esempio no: “L’ex terrorista Battisti rompe il silenzio: Mogol gli scrive il testo”. È l’associazione di idee che viene in mente a chiunque, per cui è banale: non c’è sorpresa e quindi non fa ridere. Scarta la prima battuta che ti viene in mente su un argomento. Già che ci sei, scarta anche la seconda. Invia la terza idea o magari la quarta. Non essere precipitoso: hai una settimana di tempo! Per una battuta!

8) Evita le chiuse abusate, non fanno più ridere. Esempi no: la chiusa “Dilettante!” e “Principiante!”. La chiusa con riferimento al Monopoli, al Risiko, a un videogioco, a Facebook, a TikTok. La chiusa “Centomila secondo la Questura” (o altro numero inferiore a quello degli organizzatori). Le chiuse da sfottò (“Ma va’?” “Apperò” “Mo me lo segno” “Sticazzi” “Come se fosse antani”).

9) Niente giochi di parole. Sono la prima cosa che viene in mente a tutti. Quindi dov’è la sorpresa? Inoltre sono tipici dei pedanti che vogliono sfoggiare il proprio acume. Irritano e basta.

10) Ritmo. “Scrivere battute richiede orecchio. Come a un poeta, anche a un comico serve un certo numero di sillabe per far accadere le cose nel modo giusto, per ottenere il giusto ritmo.” (Woody Allen)  Un classico ritmo comico è la sequenza ternaria: “Lei si morse le labbra, Weinstein si morse le labbra. Poi lui le morse le labbra.”

11) Una bella battuta contiene un’idea, e l’idea deve avere un fondo di verità, altrimenti la battuta è fasulla. Esempio no: “Sms troppo costosi per l’Antitrust, che passa a Vodafone.” Ma l’Antitrust ha multato sia Tim che Vodafone per gli sms troppo costosi. Altro esempio no: “El Pais pubblica le foto scattate a Villa Certosa. Delusione tra i lettori: sembra di vedere un porno giapponese, c’è gente che fa sesso e i genitali sono oscurati.” Ma in quelle foto nessuno fa sesso. La base della battuta satirica dev’essere vera, sennò è barare: sono capaci tutti.

Sulla verità di una battuta satirica è bene non equivocare. La dietrologia relativa allo sbarco sulla luna è una baggianata, ma che questa dietrologia esista è un fatto vero. Quindi posso alludervi con tutte le battute che voglio e queste battute funzionano perfettamente: la satira è sulla cultura pop.

12) Gli autori satirici vengono spesso querelati per diffamazione dal potente di turno. Evita accuse assurde che non puoi provare in alcun modo: “La rivelazione di Marzotto: ‘Naomi mi picchiava ‘. Naomi: ‘Dovevo farlo, bastava che lo lasciassi solo un minuto e se la finiva tutta lui.’” Questa è diffamazione.

13) Niente battute fascistoidi (bit.ly/3WsbCgu) e niente battute razziste. Esempio no: “È arrivato in Europa uno dei videogame più discussi nel quale vince chi effettua più stupri. Il joystick sarà a forma di rumeno.” Scivoloni che succedono quando papà è abbonato alla Padania.

14) Attento alle implicazioni. Esempio no: “Stupri nei videogame. Monito del Santo Padre: pixel sono già piccole creature.” Questa battuta si schiera contro il papa, ma giustifica indirettamente i videogame con stupri! Sbagliata anche questa battuta: “Berlusconi: ‘La Gandus giudice? È come se il proprietario di Mediaset facesse le nomine dei dirigenti Rai.’” La battuta implicava che la Gandus non fosse legittimata a fare il giudice così come Berlusconi non lo era per fare le nomine Rai: ma la Gandus aveva tutto il diritto di fare il giudice e di essere considerata imparziale, mentre Berlusconi non aveva alcun diritto di fare le nomine Rai. Attento a quello che la tua battuta dice davvero!

15) Molti mi chiedono: “Perché è stata pubblicata la battuta di un altro e non la mia? L’idea è la stessa!” Perché non è l’idea a far scattare la risata: è la struttura. L’idea contribuisce alla salienza (l’importanza psicologica) e predispone l’animo alla risata, ma è la struttura (il timer) a farla esplodere. Ed è la struttura che si impara a mettere a punto, in questa Palestra di bombaroli. Dai miei piccoli esperimenti live su battute di comici famosi, per esempio, ho scoperto che basta spostare una parola in un certo modo e la battuta diventa molto più forte. A parità di idea comica, in Palestra viene pubblicata la battuta con la struttura migliore.

Sul piano culturale, il luogo comune “L’idea è la stessa” diventa ideologia piccolo-borghese, coi suoi retaggi romantici sull’unicità dell’ispirazione artistica. Nell’arte, originalità (Shakespeare, Mozart, Bacon, Bill Hicks) e miglioramento (Shakespeare che rifà Plauto, Mozart che rifà Paisiello, Bacon che rifà Raffaello, Bill Hicks che rifà Lenny Bruce) sono valori equipollenti. È il modo (l’integrazione di plot e struttura) a fare la differenza. L’amore contrastato fra due giovani (plot) con una certa struttura diventa Shakespeare (Giulietta e Romeo), con un’altra diventa una battuta (“Un ragazzo incontra una ragazza, il ragazzo perde la ragazza, il ragazzo diventa una ragazza.”).

16) La cosa più sorprendente è quella che nessuno vede perchè è sotto gli occhi di tutti.

“A volte mi chiedo se ai necrofili piacciano davvero i morti, o solo il silenzio.” (Doug Stanhope)